KINTSUGI
KINTSUGI
rotto è più prezioso
Chi rompe paga e i cocci sono i suoi… e sono bellissimi!!
“E’ l’alba di un momento. Sono piena di entusiasmo. Vibro e rivibro. Sento la potenza della vita scorrere. Che fortuna che anche tu ci sia, qui accanto a me. Ma il passo è lento, mi affatica. E tu? Dove sei finito? Scorbutico e infastidito. Ci contavo. Dove ho sbagliato? Ma non posso mollare. Ho paura, ma riprovo.Saranno fieri di me. Tento ancora e non mollo. Mi hanno insegnato a non mollare. Devo arrivare, devo farcela e devo farlo nel migliore dei modi. Altrimenti…..altrimenti……altrimenti……meglio non pensarci. Mi vedranno, finalmente!
Ma io non mi sento a mio agio. Voglio rallentare. E mi sento pure sola, ormai. Si sono arrabbiati. Dicono che ho fallito… chevergogna! Danno e Beffa. Qui, su di me. Un senso di colpa mi pervade! Avrei dovuto, avrei potuto fare. Ho fallito!!”
Nulla sarà più come prima.
…E per fortuna direi.
Le cose non filano sempre lisce. Amiamo profondamente i nostri sogni. Siamo lì, sul pezzo, a pretendere, più o meno consapevolmente, che tutto vada secondo i piani. Ma qualche sogno non ci ha amato fino in fondo: non abbiamo superato quell’esame; quella persona, proprio quella da cui non ce lo aspettavamo, ci ha tradito, manipolato, violato; quell’altra volta non siamo riusciti a difenderci; Insomma, in qualche misura, abbiamo fallito. Il fallimento è per noi una esperienza che disturba.
Chi non ha avuto esperienze soggettivamente disturbanti?: un fallimento (appunto) personale o relazionale, ma anche un’umiliazione subita o una interazione (anche ripetuta) brusca con delle persone significative, peggio se durante l’infanzia. Qualcuno ne ha subite di più gravi: traumi che hanno minacciano la propria vita, o quella delle persone care: un abuso, un incidente, ecc… Comunque sia è danno. E’ lesione. Qualche volta e’ lacerazione. Del corpo, della mente e dell’anima. E’ crisi. Una crisi è un bicchiere mezzo vuoto. E’ difficile vederlo come un orizzonte, come una apertura alle mille possibilità che un orizzonte propone. E’ più facilmente una chiusura, attraverso la quale non passa niente, neanche l’aria. Perché?
Perché le ferite dell’anima e i traumi della mente sono scomodicome cicatrici da nascondere sotto strati di trucco? Meglio non parlarne, nasconderli sotto il tappeto della nostra memoria, chiusi nel doppiofondo del nostro cuore, restando noi immobili a sperare che, non pensandoci troppo, spariscano. Perché? Perché siamo educati alla perfezione. Tendiamo a considerare il perfezionismo un simbolo di valore. L’emblema della persona di successo. Uno spartiacque tra l’essere accolto o l’essere rifiutato, da un genitore, ma anche da un figlio. Da un partner, o da un amico.
Da un gruppo, da una società. Eppure, al contrario, spesso da perfezionista, mi sono sentita scontenta ed insoddisfatta, nella costante sensazione di non essere (ovviamente) mai abbastanza perfetta: come figlia, come studente, come professionista, come moglie, come madre, come amica….tutto sarebbe perfezionabile. E’ questo un modus vivendi in cui l’apparente perfezione è più importante della realtà.Siamo dominati da voti, classifiche, graduatorie, che certamente non aiutano.
Sono un professore universitario. Vedo molti ragazzi e vedo gli effetti che questa mania di perfezionismo ha su di loro. Lui, uno studente, questa mattina era li’. In prima fila. Partecipava ad una sessione del mio esame. Ad un certo punto, si è avvicinato a me e con respiro affannoso mi ha detto che era uno studente DSA, tentando con le parole di giustificare cosi’ la sua tachicardia. Chiedeva di andare fuori a respirare. Non ho potuto fare a meno di immaginare quale fosse la sua ansia da prestazione in quel momento. Quanto si potesse sentire deluso all’idea di non farcela. Forse stava solo tentando di mostrare la sua debolezza,.A me … e a se stesso. In una cultura in cui questo non è permesso. Ecco la pericolosità del perfezionismo come stile di vita: il perfezionamento delle proprie imperfezioni. E quando lo interiorizzi, ti è piu’ facile accettare una etichetta (sono un DSA) che giustifica le tue imperfezioni, (come se le imperfezioni avessero bisogno di giustifica) ma che ti lascia vivere finalmente in pace. Ma quanto spreco ha fatto questo giovane uomo della sua vita? Questo è un mondo in cui ogni imperfezione aumenta il bisogno di essere perfetti, altrimenti sei un fallito. In un ciclo autolesionistico!
Ci è difficile quindi vedere in una crisi lo spiraglio di un’opportunità o il segno che abbiamo bisogno di evolvere e cambiare.
Chi rompe paga e i cocci sono i suoi…è un proverbio toscano, che seppure poco veritiero, ci induce a pensare che se prendiamo un oggetto e lo rompiamo, dobbiamo pagare il danno, e poi potremo tenere per noi i resti di quell’oggetto ormai rotto. E che ce ne facciamo di questi cocci? Cerchiamo di ricostruire quell’oggetto. Usiamo colla trasparente per tentare di ricostruirlo cosi come era. Apparentemente perfetto. In modo che non si veda. Ma lo sappiamo che non durerà. Una cosa rotta non potrà più tornare davvero come prima. E allora cosa si fa? La si butta via. Lo si butta via e si ricompra. No!? La vita però non si può gettare via, né ricomprare. Un evento traumatico, è una porcellana rotta. E i suoi cocci sono pure furbissimi. E sono tutti uguali. E uno crede di aver raccolto e di avere in mano i suoi cocci. Quelli per cui ha pagato. Invece ha in mano i cocci di chissàchi.
Perciò ci sentiamo costretti a rimanere intrappolati in relazioni che non esistono piu’; su un esame universitario per anni; Incapaci di godere del normale piacere erotico; sotto il potere di sostanze naturali o artificiali che ci intossicano e ci consumano giorno dopo giorno; Incapaci di riprendere una via. Goffi nel tentativo di nascondere il danno, perché….”cosa diranno di me”. Teneri, nel tentativo di attaccare con lo sputo pezzi che non combaceranno mai… questi cazzo di cocci… Alla meglio, va di moda l’accettare, con un amaro gusto di sconfitta in bocca e un sorriso falso sulle labbra.
Ma noi siamo esseri umani. Neotenici. Capaci di adattamentocreativo. Vuol dire che fa parte del nostro istinto non arrenderci alle difficoltà, ma superarle. E se cadiamo o falliamo, abbiamo le capacità e la forza di rialzarci ed elaborare nuove soluzioni. È allora che la filosofia giapponese del kintsugi viene in nostro aiuto:
“l’obiettivo non è solo quello di sistemare l’oggetto, ma di dargli anche una nuova vita e un nuovo aspetto, valorizzandone le crepe, invece di nasconderle. Dolci cicatrici, come fiumi d’oro, lo attraversano, regalando alla vista una nuova armonia.”
Il concetto di fondo è importantissimo: ciò che è rotto non è perduto, ma può rinascere, con nuova forma e con la forza dalle sue imperfezioni. Diventando così qualcosa di molto più bello.
Le nostre cicatrici non sono più difetti, ma sono l’inchiostro con cui è stato scritto il nostro passato. Raccontano la nostra storia che, per quanto dolorosa, è parte di noi. Siamo noi. I sopravvissuti. Le esperienze difficili che abbiamo affrontato non ci hanno solo “danneggiato”, ma anche rafforzato e fatto crescere. Vasco rossi diceva:
Noi siamo i soliti, quelli così
Siamo i difficili, fatti così
Noi siamo quelli delle illusioni, delle grandi passioni
Noi siamo quelli che vedete qui
Abbiamo frequentato delle pericolose abitudini
E siamo vivi quasi per miracolo, grazie agli interruttori
Noi siamo liberi, liberi, liberi di volare
Siamo liberi, liberi, liberi di sbagliare
Siamo liberi, liberi, liberi di sognare
Siamo liberi, liberi di ricominciare
E dunque, coli tra i nostri cocci lo stimolo a reagire, la fiducia in noi stessi, la consapevolezza di cio’ che siamo in grado di fare, anche dopo un fallimento. Circoli nelle nostre vene l’oro della creatività e dell’empatia verso se’ e verso gli altri, per superare definitivamente la sclerosi da giudizio.
Valeria Carofiglio
tirocinante di psicologia clinica
presso lo studio burdi
Schiena
SCHIENA
A schiena nuda
contro pareti di chiese sconsacrate.
Negli occhi frammenti e colori dei rosoni gotici.
Ti prego stringimi nello scialle caldo
del tuo conforto.
Cadono le preghiere al traguardo degli autunni
passati ad aspettarti
Ti prego dissetami dalla fonte di verità
portandomi alla bocca
il calice malfermo di Bacco.
1i prego legami
i pensieri di libertà che mi hanno portato qui
credendo di lottare
nel silenzio del mio
bug genetico.
katiuscha nazzarini
Continua
L’ Equilibrio
Equilibrio.
Ci sono periodi in cui ci sentiamo in equilibrio, al posto giusto, sono momenti in cui non capita necessariamente qualcosa, non avviene dall’esterno, ma parte da noi stessi.. può capitare all’improvviso, guardando la pioggia dal terrazzino di casa a metà agosto, quando il vento e l’aria fresca ti accarezzano il viso, ti alleggeriscono dalla routine e dal caldo estenuante..
può capitare durante un pomeriggio in sup, sei in equilibrio su una tavola e guardi l’orizzonte, ti perdi nei colori del tramonto e ti accorgi che non è mai stato così bello.
E su quella tavola ti senti un tutt’uno con l’esterno, con il mare, con il sole, con il vento. Lì in quel momento senti un’energia, delle vibrazioni che partono da dentro e si diramano attorno.
Sono momenti speciali, in cui ci si sente pienamente vivi, luminosi, leggeri.
Fatichiamo tanto a ricercare pienezza dall’esterno, dagli amici, dai partner, anche dai familiari.. quotidianamente.
Ed in questi momenti ci rendiamo conto che in realtà è già in noi stessi..
Attimi in cui non ci serve nient’altro, ci bastiamo e siamo felici. Non ricerchiamo niente nel futuro e non guardiamo al passato, siamo pienamente centrati sul nostro, personale, presente.
Oggi sono rientrata dalla palestra, ho fatto la spesa e mi sono messa a guardare fuori, qui piove ma è meraviglioso. Mi sono sentita così, felice, luminosa e grata di essere qui in questo momento, non è successo niente di particolare. Sono solamente felice ❤️
benedetta racanelli
ContinuaFortemente presente, totalmente assente.
Fortemente presente, totalmente assente.
Minuchin, pioniere della psicoterapia familiare, identifica tra le costellazioni familiari della coesione, due tipologie completamente opposte, ma ugualmente distruttive.. l’invischiato e il disimpegnato.
Nella famiglia invischiata l’individualità è totalmente assente, la famiglia è totalità, le emozioni vengono sentite da ogni componente in maniera amplificata, non c’è privacy, non esistono limiti, ogni decisione viene tacitamente accettata da ogni membro senza possibilità di reale confronto. Esistono regole, doveri, disposizioni, in onore dell’amore familiare, un amore eccessivo, talmente forte da distruggere, privare il bambino della sua vita, che non lascia spazio alla crescita individuale, alle scelte.
Un padre che ama profondamente e con tutto se stesso la sua bambina, la sua gioia, il suo cucciolo da proteggere, istruire, crescere, incontra in terapia un ragazzo, un meraviglioso ragazzo soffocato dall’amore di una madre che per tutta la sua vita c’è stata per lui. Lei c’è stata in un modo che credeva fosse quello giusto, ha cercato di farlo vivere in una campana di vetro, lontano dai pericoli, in un mondo ovattato, finto, perfetto, un parco giochi con tutte le misure di sicurezza. Come portare un bambino sullo scivolo mettendogli casco, ginocchiere, cuscini a terra, magari controllando costantemente che non stia sudando, e magari non facendolo divertire troppo perché potrebbe distrarsi e farsi male. Uno scenario soffocante frutto di un amore opprimente, che diventa distruttivo.
Un padre incontra oggi in gruppo analisi, un ragazzo ipocondriaco con una madre che ha sempre adottato tutte le misure di sicurezza, che lo ha allontanato da qualsiasi pericolo.. E che oggi combatte con l’ansia e il panico di vivere la propria vita, impaurito dalla possibilità di essere contaminato da un mondo, che misure di sicurezza non usa.
La proiezione del ragazzo nell’uomo è stata talmente forte che al solo racconto dell’amore del padre verso sua figlia, questo ragazzo ha reagito con ansia, sentendosi soffocare da un amore che annienta.
Dall’altra parte della medaglia, abbiamo la famiglia disimpegnata, dove l’individualità è tutto, le misure di sicurezza non esistono, i genitori non accompagnano i bambini nella scoperta di se stessi e del mondo, dove i pericoli non si riconoscono ma se ne ha accesso.
Una madre che si dimentica sistematicamente di prendere la figlia da scuola, due fratellini che decidono di andare a prendere un treno per partire, una ragazza che si fa carico di tutti i problemi della famiglia nella disperata e vana speranza di ricostruire un ambiente più sano, unito e positivo, un ragazzo che deve consolare una zia nonostante il suo desiderio di essere protetto e consolato da sua madre. Sono scenari dove i ruoli si invertono, generando confusione, disagio e paure. I figli diventano genitori, privandosi di vivere la fanciullezza, l’adolescenza, ricercando in loro stessi una perfezione estenuante. Vivendo con la costante paura di sbagliare, di essere giudicati, di non essere abbastanza per non aver mai avuto sostegno, calore e approvazione.
In gruppo li riconosci, sono giovani adulti, composti, con emozioni soffocate, ma che quando emergono raggiungono tutti, come un urlo straziante.
Entrambe le costellazioni sono distruttive, privano il bambino e il futuro giovane adulto di autostima, di sostegno, di fiducia in loro stessi, generano ansie e paranoie, malattie psicosomatiche, rigidità e diffidenza che si cronicizza in noia o depressione.
La magia della terapia di gruppo è la possibilità di confronto, di conoscenza di queste realtà, accompagnando ogni persona nella comprensione di queste dinamiche e nel proprio cambiamento. Nell’affermazione di se stessi, riappropriazione della propria persona.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
presso lo studio burdi
La Sociopatia della Porta Chiusa
UN’ ARCANA REPULSIONE
La sociopatia delle porte chiuse
Porte chiuse , sbarrate , chiusa al mondo a chi la guarda negli occhi e le dice esisto abbi rispetto .
Sbattere porte , manipolare in modo aggressivo oggetti tra le mani , urlare , tossire , imprecare , nidificare dentro la mente rabbia , invidia , gelosia per gli altri, per il successo altrui , il patrimonio altrui, la serenità capacità di socializzare ed essere apprezzati dagli altri.
Un’arcana repulsione verso L altro portato dentro le viscere dall ’infanzia , verso chi in modo incisivo afferma alla sociopatica di essere libero dentro e fuori , di rispettare le regole sociali.
Verde dalla rabbia la sociopatica , vive da sempre in casa e fuori casa , nei luoghi di lavoro , nell ‘ agora’ della vita nutrita di sociopatie , psicopatie mai curate ma solo urlate e chiuse in una stanza con un lucchetto , nascosta dietro un vittimismo fuorviante, sfiancante , stressante per figli , mariti, colleghi .
Arrogante , supponente , loquace e impulsiva non riesce a conformarsi alle norme sociali , nutre un forte senso di irritabilità e mancanza di rimorso , tende alla menzogna e alla manipolazione di chi gli si presenta difronte non prova empatia ,né senso di colpa e ha un grave deficit del controllo comportamentale .
Un lucchetto alla Porta , un ferro che striscia ogni giorno sulla porta ,nella mente della sociopatica suggellando , sigillando , imprigionando i pensieri per l altro , sull ‘ altro .
Chi è l’ altro per la sociopatica ?
Un disturbante , un ingombrante da eliminare , da isolare cosi come l’ isola che la sociopatica ha nei suoi pensieri nei suoi profondi desideri .
Priva di Empatia , dai comportamenti Disfunzionali , egocentrici, egoistici , manipolativi e spesso aggressivi .
La sociopatica e’ colei che ha subito disagi ambientali che, hanno generato seri problemi di adattamento sociale e capacità di istaurare legami . Con ogni probabilità la sociopatica ha subito traumi infantili , violenze fisiche o psicologiche dai quali sono generati deficit emotivi e mancanza reale di interesse per le altre persone .
Una mente priva di capacità emotiva , con perdita di controllo , le sue azioni sono una valanga di impulsività che auto giustifica affermando che sono le altre persone ad essere sbagliate , inferiori o incapaci .
Parole sputate , vomitate con freddezza , distanza e distacco nei confronti del mondo .
Estreme le difficoltà per una sociopatica nel vivere serenamente . Le sue relazioni si basano su ragioni opportunistiche che non comportano un coinvolgimento emotivo , le sue sono solo relazioni superficiali , fredde , bramosa di una costante approvazione del gruppo con il quale non riesce a gestire le critiche , tende all’ autocommiserazione dichiarandosi vittima degli altri o della società .
L’ inserimento e’ difficile per la sociopatica poiché non si comporta secondo le norme socialmente accettate e il rispetto dei diritti altrui .
angela ciulla
ContinuaL’ Assente
L’ Assente
Ci sono padri che lavorano soltanto e figli affannati che supplicano e sono continuamente in attesa della loro presenza. Dall’ entusiasmo iniziale di avere il padre come un proprio eroe, al rammarico che non ci sia, alla disperazione che la condizione non potrà mai cambiare, in termini di tempi di condivisione e di presenza, alla rassegnazione abbandonica in cui il bambino inizia a credere che dovrà cavarsela da solo, pur non sapendo come fare.
Si dà avvio ad una condizione di adultizzazione del bambino con il conseguente salto della sua infanzia.
Il bambino farà tutto da solo, vedrà la nascita del monologo e del soliloquio, parlerà con se stesso, si farà domande, si darà risposte, avvierà soliloqui interminabili con se stesso, privi di riscontri con la realtà, intrisi di elaborazioni de realizzanti, riconoscerà come padre il proprio pensiero, in braccio alle proprie inconcludenze, imparerà a non guardare il padre in faccia, a guardare le proprie elaborazioni.
Soliloqui, monologhi, fantasie, mediazioni, concentrazione sul proprio mondo interiore, sullo studio, permetteranno alla sua mente di divenire la propria casa ideale, l’ alcova, il luogo incantato dove rifugiarsi e incontrarsi il suo mondo migliore, dove iniziare a sperimentare le sue prime intrusioni. Vivrà le invadenze e le delusioni esterne come disturbanti del suo mondo interiore fantastico, loro diventeranno pensieri intrusivi e paranoici, difformi ai propri pensieri.
Questo rappresenta l’ esordio di una relazione autistica tra il proprio pensiero e il mondo. L’ assenza, è la radice abbandonica, che accompagnerà il figlio per la sua vita. Il figlio dimenticherà e disconoscerà il padre ma lo cercherà in tante altre figure sostitutive ed alternative senza che lui lo sappia riconoscere o senza che lui se ne accorga.
Le Carezze, i giochi, le conversazioni, i baci, tutti i perché senza le risposte del padre eroe, come mito dell’ adulto che non c’è, svuotano il bambino, che non potrà essere ascoltato e non potrà parlare. Un padre che non prende in braccio il proprio figlio, non lo potrà mai farlo sentire un futuro eroe, non potrà curare la propria insicurezza col pilastro dell’ essere adulti.
“Ma papà lavori sempre, per me non ci sei mai ? “ . Un figlio, che affermi questo, viene posto di fronte alla propria impotenza di non poter ricevere mai un riscontro e desolato, dovrà, adattarsi al suo essere invisibile al quale rassegnarsi.
Un padre ammalato della sua assenza, tirerà su un figlio accudente che si prenderà cura di lui. Quando il figlio diventerà padre, sarà ciò che ha imparato, da assente si farà curare dal figlio, bastone della sua vecchiaia, si prenderà cura del padre come il bambino che non è mai stato. Si darà via a quel giro vizioso automatico generazionale senza fine. Nessuno vive, ma ognuno si prende cura non di se, ma sempre di quslcun’ altro. Si avviano generazioni di infelici, di soli ed isolati , perché l’ isolamento altro non è che il ri perpetuare dell’assenza.
Bisogna rinunciare ad avere figli, se figli non si è mai stati. Nello stesso senso, chi dichiara di non desiderare avere figli, dichiara di avuto pessimi genitori. Chi non desidera ricevere figli, è fondamentalmente impaurito dall’ idea di rivedere in loro la propria infanzia svuotata del padre.
Flotte di genitori assenti generano generazioni in guerra e in conflitto, generazioni di bellicosi, insoddisfatti, generazioni di soldati, in lotta, a difesa del proprio ruolo e della propria identità. Un figlio non amato, con conosce la presenza, non sa cosa possa mai essere l’ amore, diviene specialista in anafettività, trasparenza, rabbia, indifferenza ed odio.
L’ origine delle guerre e del desiderio di morte è da attribuirlo al processo complesso delle assenze. Chi fa guerra, non vede il prossimo, non ti riconosce, non è toccato nella sua umanità, perché non toccato e pertanto respinto dall’ umanità del genitore; chi fa guerra non in è grado di riconoscere l’ altro in se stesso, possiede uno specchio frantumato di se, perché dall’ altra parte c’ è un genitore frantumato. Il vuoto dell’ assenza è il vuoto dell’ umanità.
Quando incontri un partner, reduce dell’ assenza genitoriale, vivi la frustrazione delle assenze subite, ti da pagare e riempire tutti i suoi vuoti subiti, non gli basti mai gli manchi sempre, anche quando ci sei, ne avverte il vuoto sempre. In realtà gli manca ciò che non c’è mai stato nel passato, e l’ assenza abbandonica attuale, altro non è se non la punta dell’ iceberg. Manca sempre un assente primario, eccellente, una matrice fondamentale. Tanto più grande è l’ assenza di una figura genitoriale, tanta più avrà una importanza privilegiata una minima assenza di oggi.
Chi è costretto a fare da genitore al proprio, intossica il suo ruolo, si immette su una corsia preferenziale futura, ovvero cercare un partner che fosse un figlio da accudire. La vita diviene una immolazione sfiancante, una malattia.
Una lettera scritta ad un padre o ad un partner, rappresenta quella sfida per mappare la propria storia relazionale, per poter ripercorrere la storia del proprio sacrificio. Serve a delineare tutto ciò che mai si è potuto scegliere, per svelare quella sacra consapevolezza che la vita, oggi, potrà ancora essere scelta, spaccando quelle patologiche catene di obblighi e di ruoli inadeguati non più opportuni nel presente.
Un serio ed assiduo lavoro analitico, correlato ai suoi strumenti di lavoro, come una psicoterapia individuale, una gruppo analitica, la lettera analitica, i rispecchiamenti, i de condizionamenti, gli psicodrammi, ect ect, hanno il compito di esaltare la consapevolezza, per accellerare le risposte e i cambiamenti, chiarire i ruoli e i modelli di riferimento, servono a spezzare quella circolarità viziosa generazionale, che passa la malattia, come un un testimone da genitori a figli, fissando proprie attitudini, propri talenti ed obiettivi per tornare alla propria progettualità e protagonismo.
Tutto ciò non è affatto facile, è molto complesso, ma non impossibile, non ci sono miracoli da compiere, specialmente se ci sono interruzioni del trattamento, quando a lavoraci resta solo lo psicoterapeuta, bisogna volerlo, con grinta ed audacia, abbattendo la flemma e gli automatismi, con tenacia e continuità terapeutica, si riesce a realizzare il ritorno alla salute e la propria metamorfosi, perché si fanno i conti con gli stili di vita, con le rigidi abitudini e le sedimentazioni dei ruoli indossati errati, per scollare di dosso tutto ciò che non è proprio, si ritorna alla salute del proprio protagonismo.
giorgio burdi
ContinuaIl Rigetto
Il rigetto
Chi non ha sperimentato esperienze predatorie? Siano esse nelle relazioni amicali, parentali, amorose o affettive in genere. Siano esse più’ o meno traumatiche.
Non ci siamo saputi difendere. I nostri confini sono stati violati. Quei confini che ci definiscono e ci distinguono dagli altri. Il perimetro della nostra essenza, della nostra dignità, del nostro valore. Ma che sono anche un filtro, una membrana, una lente attraverso la quale guardiamo l’esterno. Una membrana che può’ essere più’ o meno porosa, una lente che può’ essere più o meno aberrante, ma che comunque interviene come una cornice di senso sulla nostra capacità di accogliere, elaborare e catalogare quello che ci giunge dall’esterno, il corpo estraneo.
Spesso noi stessi non conosciamo quei confini. E d’improvviso diventiamo testimoni di una reazione cicatriziale interna alla nostra anima, un sieroma infinito, nei confronti di quel corpo estraneo, di quell’atto “violento”, di quel ”altro da noi” che continuiamo ad accogliere. E’ la nostra anima, la nostra essenza, che cerca di isolare questa struttura disconosciuta, di rigettarla.. Ma a volte la membrana è troppo sottile, è carta velina bagnata. E il rigetto non avviene: Il confine manca.
Curare l’anima passa attraverso la costruzione dei nostri confini, per definire chi siamo e in cosa siamo diversi. Per dire “no” a ciò che non siamo. E “si” a cio’ che siamo. Ricostruire l’anima passa attraverso lo stabilire che li’, oltre quella soglia, non si può andare. Nessuno può’ farlo. L’individuazione del nostro punto di rottura, poi, ci protegge dai corpi estranei. Il punto di rottura corrisponde a quello che Giorgio Burdi chiamerebbe il “nostro Numero Uno”, che grida e dice “basta è finita!”. Il più delle volte questo grido non supera il volume delle nostre fragilità. È solo un eco… e ci sembra che tutto ciò che facciamo siano solo azioni automatiche. Diveniamo spettatori delle nostre reazioni e il mondo esterno non sembra reale. Qui la nostra essenza si disintegra. Quello che credevamo di essere viene sgretolato dai nostri comportamenti dissonanti, che sono spinti dal solo bisogno di affetto, di essere visti…E arriviamo ad odiarci, perché nonostante tutto siamo li. Quel “nonostante tutto” pesa tantissimo, ma non è sufficiente a farci fuggire.
E allora, rimbocchiamoci le maniche. Risoluti. Cosa dovrebbe succedere per dire “Basta!!!”? Uniamo le nostre fragilità a sostegno della definizione del nostro confine. Perché se non abbiamo chiare anche le nostre fragilità, se non le accogliamo, faremo sempre vincere il dolore. Non ci sarà mai una rivolta. Non sarà mai il numero Uno a guidare le nostre scelte. Decidiamolo ora qual’e’ il punto di rottura. E non importa se oggi il nostro cuore non sa sostenerlo. Ma da oggi in poi lavoreremo per sostenerlo, e forse non saremo neanche costretti ad arrivarci al nostro punto di rottura: Se lo abbiamo chiaro in mente, abbiamo anche gli allarmi di quando ci stiamo per arrivare.
…e finalmente, immaginando come ci sentiremo oltre quel punto, sentiremo che quella sensazione li’ non è una sensazione che non sappiamo sostenere. Finalmente vibriamo solidi. Le nostre decisioni sono perloppiù irrevocabili. La nostra visione va via in un istante!
valeria carofiglio
ContinuaIl Caricabatterie
Il caricabatterie
Ci sono situazioni di apparente comfort, di volubile tranquillità, illusoria serenità che ci fanno schiavi incatenati ad una perversa finzione allucinatoria.
Sono situazioni che a occhio esterno parrebbero ovvie, schematiche, un due più due, una banconota da due euro, uno scherzo di poco gusto, ma quando è il sentimento a essere protagonista diventa difficile vedere nitidamente.
Intrappolati in una oasi nel deserto ci abbeveriamo delle nostre stesse allucinazioni, dissetandoci di acqua che altro non è che sabbia, ci immergiamo le mani, i gomiti, il viso e con la bocca la cerchiamo, convinti di riuscire a vederla, assaporarla, finiamo con il convincerci che c’è, finiamo con il dare forma, peso, altezza alle nostre allucinazioni.
Finiamo per dare un cuore, sentirlo pulsare, quando in realtà è solo il nostro a battere per entrambi, un cuore per due persone.. pensa a quanta fatica dovrebbe fare per pulsare per entrambi, per ossigenare entrambi, per dare la forza, il sostegno la vitalità a due corpi.
Spesso facciamo l’assurdo errore di scambiare il nostro cuore per un caricabatterie universale.
Ci incastriamo in situazioni sfidanti, in una partita di gioco d’azzardo dove il monte premi però è molto più basso del costo della partita. Reiterando le nostre mosse, perdendo e perdendo ancora, nonostante l’ovvietà. Nonostante qualche piccola vincita, la perdita è nettamente superiore.
È un errore questo, che spesso può accadere quando ci si ritrova ad avere a che fare con i sentimenti… ci incaponiamo con situazioni che non fioriscono, con energie che non vibrano, con melodie che stonano, in una modalità schizoide e saturante.
Perché mai un pianista dovrebbe voler suonare un pianoforte non accordato?
Potrebbe certamente provare ad accordarlo una volta, ma se non dovesse funzionare non si esibirebbe ai suoi concerti con quel pianoforte…
Eppure succede che anche quando ci rendiamo conto che un sentimento non funziona, ci incaponiamo, proviamo e riproviamo, ci facciamo male, ma non riusciamo a lasciarlo andare.
Sappiamo che non fa per noi, che ci sta scaricando, privando di energia, di luminosità, perfino quando il dolore ci sovrasta gli restiamo ancorati in una modalità psicotica.
Finiamo con il suonare e risuonare le melodie con note stonate, magari mettendoci anche dei tappi alle orecchie pur di non sentire il rumore assordante.
Ci mettiamo delle bende agli occhi per non vedere il marcio, tappi per non sentire il frastuono, e cerchiamo invano di far funzionare ripetutamente qualcosa che non va.
Quanto sarebbe più facile a questo punto lasciar andare tutto? Lasciar andare il macigno, sentirsi più leggeri, più in sintonia con se stessi, senza più dover cercare di ricaricare incessantemente un qualcosa che è destinato a scaricarsi in eterno?
Quanto sarebbe più facile smettere di sorreggere una costruzione traballante, essendo consapevoli che non appena saremo noi a staccare anche per pochi istanti una mano, questa inevitabilmente crollerà?
Come possiamo sperare di poter mantenere, ricaricare in eterno qualcosa che non ha la possibilità di autoalimentarsi o co-alimentarsi.
Quando si parla di sentimenti, legami, relazioni si parla di condivisione, di unione, di scambio, di vita, passioni, di reciprocità.
Un’unione presuppone equilibrio di forze, sinergia, nutrimento per entrambi, punti di incontro non imposti, un venirsi incontro spontaneo, una comunicazione sincrona.
Un caricarsi a vicenda, un posto in cui le energie ce le si scambia, ce le si dona reciprocamente.
Una relazione è a due, a due corpi, a due anime, a due forze.
Quando è solo uno che alimenta per due è un caricabatterie.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
presso lo studio burdi
Il Dolore
Il dolore- dalla perdita, alla riappropriazione di se stessi
A chi non è capitato di dover affrontare un periodo molto difficile, intriso di dolore, accompagnato da situazioni che sembrano fuggire dalle proprie mani. In momenti come questo può capitare di sentirsi impotenti di fronte agli eventi, sentirsi passivi e vivere da spettatori gli avvenimenti per paura di affrontarli.
Ci si sente naufraghi della propria vita, sballottati dalle onde situazionali, a motore spento e solo con dei remi che non ci permettono di affrontare il mare in tempesta, in questa cornice ci si ritrova a naufragare in solitaria.
Ma in una cornice come questa il risultato può essere ambivalente, accompagnato da sfumature e colori a seconda della nostra risposta emotiva.
Il dolore può portare ad una solitudine primordiale, un contatto reale e viscerale con noi stessi. Ad un sentirci e pensarci pienamente, il dolore ci riporta a noi stessi, a sentire la nostra pelle, i nostri pensieri, il nostro essere, la nostra anima. Ci riporta ai nostri bisogni e ai nostri desideri.
Vivendo il dolore, al contempo, è possibile che ci si senta perduti, soli, impauriti, piccoli in uno spazio sconfinato e sconosciuto. Appare chiaro quindi che il risultato potrebbe essere quello di cercare salvezza all’esterno, negli altri.
Il dolore quindi può portare a creare dei legami salvifici, legami che potrebbero non avere delle reali basi, ma semplicemente bisogno di fuggire, di allontanarsi e scappare. Ci si ritrova a fuggire da noi stessi nel disperato bisogno e speranza che la fonte di dolore scompaia. E scappando ci aggrappiamo a qualsiasi cosa, persona, situazione. Ma il dolore lo portiamo inevitabilmente con noi.
Finiamo quindi col creare rapporti il più delle volte superficiali, di apparenza perché quello che stiamo realmente cercando si trova in noi stessi, ma la paura può renderci ciechi.
Sarebbe impensabile costruire una casa di legno da soli, senza fondamenta, senza travi, senza stabilità e trasferirsi volontariamente all’interno, vivremmo con il terrore che possa crollare da un momento all’altro, crollarci addosso.
La nostra anima è la nostra casa, le situazioni che viviamo, che scegliamo e non scegliamo, ci formano, ci costruiscono, ci modificano, nessuno di noi nasce e cresce con travi ferree, strutture incrollabili.
Quello che possiamo fare però è lavorare sulla struttura, possiamo affidarci, analizzarci, metterci in gioco, per co-costruire assieme il nostro palazzo,
Imparare come affrontare le situazioni più difficili, i momenti di dolore.
La terapia è ciò che distingue il modo di affrontare il dolore, l’analisi ci permette di porgere lo sguardo sull’impensabile, ci permette di trovare la forza in noi stessi per affrontare un uragano, per non crollare, per rialzarci. Ci permette di ristabilire il contatto con noi stessi, tornare a essere protagonisti della nostra vita, di entrare nel dolore, toccarlo, immergerci, analizzarlo e uscirci, con l’aiuto di un professionista che ci dona gli strumenti per poter ricostruire insieme le fondamenta della nostra anima, che potremo abitare per sempre, senza temere più che possa crollarci addosso.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
presso lo studio burdi
CREATURE LIBERE!
Tradire sé stessi, per crescere.
CERCARE LA VERITÀ
Uno dei più grandi paradossi della nostra esistenza è “quello di comportarci in modo da garantirci l’infelicità. Molti di noi trascorrono la vita a camminare consapevolmente verso il rimorso, il rimpianto, il senso di colpa e la delusione. E non c’è situazione in cui le nostre ferite sembrano più casualmente autoinflitte, o le sofferenze che creiamo più sproporzionate rispetto alle necessità del momento”. La considerazione è di Sam Harris, filosofo e neuroscienziato statunitense che, nel 2013 pubblicò un saggio dal titolo: “Bugie” (Roi Edizioni). Qui teorizzava la possibilità di rivedere i legami sociali, alla luce dalla pratica dell’onestà allontanandola, però, da qualsiasi intento moralistico. Con riferimenti pratici, dimostrava quanto l’esser sinceri, con sé stessi e con gli altri, riuscisse sempre a far ottenere risultati vantaggiosi e giusti per ciascuno, semplificando la vita e aprendo l’individuo ad una crescita personale coerente, poiché mentire è “la via maestra che conduce al caos”.
Chi più, chi meno, tutti fingiamo (lat. fingo: plasmo, simulo), seppur in buona fede, ma, questa cattiva abitudine finisce col complicare le situazioni, compromettendo, alla fine, il nostro modo di interagire col prossimo. Rischio che riguarda anche la salute psicofisica, dato che tutte le nevrosi trovano terreno fertile nelle verità riplasmate in base alle nostre esigenze. Una riflessione già percepita da Adler: “una bugia non avrebbe senso se la realtà non fosse percepita come pericolosa”. Harris insiste sul concetto e porta il vezzo all’inganno come vero strumento antisociale: “Mentire è sia non capire che non voler essere capiti; significa sottrarsi alle relazioni”.
Il fenomeno dell’antisocialità e del progressivo indebolirsi delle relazioni umane venne preso in oggetto anche da un sondaggio Ipsos del 2023. Le indagini indicarono come tra le cause percepite dai singoli, sul perché di questa frantumazione solidale ci fossero motivazioni riscontrabili in un netto disagio nell’assumersi le proprie responsabilità e nell’incapacità di adattarsi all’altro. Il quadro generale riportava una dilagante sfiducia sia nelle proprie risorse che nell’umanità in generale. Nulla di nuovo, insomma, se riportato alla teoria di “società liquida” (Bauman) sfuggente e superficiale che ha perfezionato il suo itinerario con la “Fine dell’amore”: «La nostra libertà si esercita nel diritto a non impegnarsi o a disimpegnarsi dalle relazioni, un processo che potremmo chiamare la scelta di annullare la scelta: la possibilità di uscire dalle relazioni in ogni momento» (Illouz 2020).
CERCARE LA VERA LIBERTÀ
La “possibilità di uscita” è, per dirla tutta, una grande menzogna che continuiamo a raccontarci. Ogni distacco è un trauma e come tale andrebbe consapevolmente elaborato. Definirsi liberi non può prescindere dalla lealtà dei sentimenti. Scopo della psicoanalisi, come dice Carotenuto, è quello di smascherare; dare la possibilità, ad ogni paziente di “tradire” le proprie convenzioni e le proprie convinzioni. Riposizionare (lat.: tradere) il Sé può aiutarci a riattribuirci un senso, a guardare con empatia all’altro e, infine, a rimparare ad amare. Tutto sta nella nostra disponibilità ad emanciparci e a voler crescere. Ma cosa ci muove verso la crescita? Per Jung, bisognerebbe: “confessare a sé stessi il proprio vivo desiderio. Molti hanno bisogno di un particolare sforzo d’onestà. Troppi non vogliono sapere a che cosa anelano, perché ciò pare loro impossibile o troppo doloroso. Il desiderio è però la via della vita. Se non ammetti di fronte a te stesso il tuo desiderio, allora non seguirai te stesso ma strade estranee che altri hanno tracciato per te”. (Libro Rosso). Lacan ha fondato la sua ricerca psicoanalitica su questo concetto di Desiderio, “la condizione assoluta” dell’uomo che lo porta a poter ridare senso alla vita, a “guardare in alto” (de-sidera). Desiderare è vivere. Desiderare è ricercare sé stessi, guardando agli altri in modo onesto, libero e svincolato dalle impostazioni mentali, pervenuteci dalla famiglia, dalla società o dalle sovrastrutture che hanno come fine quello di dominarci.
TROVARE SÉ STESSI E IL MONDO
Molto probabilmente, l’ultimo capolavoro di Yorgos Lanthimos, Povere Creature! (Poor Things, 2023/141’) ci porta vicino, alla spiegazione di queste dinamiche. Il soggetto del film si ispira all’omonimo romanzo (1993) dello scrittore scozzese Alasdair Gray. La trama verte sul cammino d’emancipazione della protagonista Bella Baxter, creatura restituita alla vita, grazie ad un inverosimile trapianto di cervello del feto che aveva in grembo. La sua formazione umana consisterà in un continuo tradimento di tutto ciò che la circonda e questo in nome del suo innato Desiderio di sperimentazione e conoscenza.
In sequenza: tradisce le attese del suo padre-creatore Godwin che la vorrebbe rinchiusa in una lugubre e infernale casa-laboratorio; tradisce le pretese dell’avvocato Duncan Wedderburn, dei suoi sentimenti asfissianti, delle sue promesse di libertà (in pratica tende anche lui a rinchiuderla nel suo mondo maschilista); tradisce le attese del giovane studente Max McCandles che la vede scappare lontano dal suo cuore. Tradisce perfino la sua stessa formazione, quando chiede al cinico Jerrod Carmichael, di portarla a conoscere gli abissi del mondo. Tradisce, infine, l’arroganza del suo ex marito (quello che la portò al suicidio), quando gli fa capire che preferirebbe morire daccapo piuttosto che scendere a patti con la sua mente caprina incline all’ uso delle armi, della violenza e dell’arroganza, per assoggettare le volontà di chi lo circonda.
Non possiamo notare che il regista usa con padronanza molti simboli e riferimenti letterari, per far emergere il costante lavoro di emancipazione di Bella. Due, tra i più significativi: il viraggio dal bianco e nero al colore, quando Bella lascia la “casa familiare” spinta dalla voglia di conoscenza e l’uso del fisheye come rimando al pensiero critico. Bella si ribella ad ogni definizione, dichiarandosi come persona imperfetta a cui piace sperimentare: “Io devo partire, vedere il mondo e c’è così tanto da scoprire”. La sua libertà è sincera. Vive il mondo senza alcuna dipendenza, lo usa, se vogliamo, senza cedere alle sue trappole.
Il film, non è solo un manifesto femminista vuole essere un omaggio alla possibilità che abbiamo di cambiare. Difatti, nelle scene finali, troviamo altre figure che hanno abbandonato i loro soliti schemi esistenziali. Basti pensare a Godwin che da malato terminale, concretizza di non poter possedere nulla, né le sue creature e neanche l’imprevedibilità della morte che pur aveva toccato, per tutta la sua vita. Ci resta una frase, che ci offre una chiave di lettura. Il copione la affida a Madame Swiney, la tenutaria del bordello londinese in cui Bella incontra la sua Ombra – junghianamente – la sua parte più scura che la indirizzerà verso la completa emancipazione: “Dobbiamo sperimentare ogni cosa. Non solo il bene, ma anche il degrado, la tristezza…così possiamo conoscere il mondo. E quando conosciamo il mondo, allora il mondo è nostro”.
Luca Anaclerio
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