
La Capacità di Essere Solo
LA CAPACITÀ DI ESSERE SOLO
È spesso opinione comune associare l’essere soli alla solitudine, a una condizione passiva di abbandono e profonda tristezza. L’essere soli assume così connotazioni esclusivamente negative.
La capacità di essere soli, invece, è una condizione positiva, una risorsa. È la capacità di guardarsi dentro, di raccogliersi, il saper stare con sé stessi. Guardarsi dentro aiuta a capire meglio chi siamo, a riconoscere e superare le nostre debolezze e insicurezze, le nostre paure.
L’essere soli è vitale, ci permette di guardare nelprofondo della nostra anima, di ascoltare le nostre emozioni più intime e accoglierle. Ci fa comprendere i nostri bisogni individuali e ci palesa le nostre pulsioni più nascoste.
Saper stare soli ci aiuta a sentirci gratificati da ciò che siamo, a tollerare i nostri difetti e le nostre imperfezioni, a superare i fallimenti. Ci aiuta a sciogliere nodi troppo stretti, a modellare schemi mentali rigidi. Ci permette di essere profondi con noi stessi prima di esserlo con gli altri.
La capacità di stare soli è elemento fondamentale per la costruzione di relazioni sociali: è importante prima imparare a stare bene con noi stessi per poi poter stare bene con gli altri.
D.W. Winnicott associa la capacità di essere soli al silenzio, quel «silenzio interno» che permette di ascoltare e instaurare un contatto profondo con sé stessi, di essere soli con sé stessi.
L’autore, pediatra e psicoanalista britannico, di nota esperienza clinica con bambini e adolescenti, ritiene che la capacità di un individuo di essere solo sia uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo affettivo.
La letteratura psicoanalitica insegna che la capacità di stare soli si sviluppa nel primo periodo di vita.
Secondo Winnicott la capacità di essere solo ha origine dall’esperienza del bambino di essere solo in presenza della madre, ha origine, dunque, dal paradosso di essere solo in presenza di un’altra persona. Definisce questa condizione «relazionalità dell’Io», un rapporto tra due persone, in cui uno o entrambi sono soli, ma la presenza di ciascuno è importante per l’altro.
Winnicott attribuisce alla relazione madre-bambino la responsabilità di sviluppare la capacità di essere solo. La madre ha pertanto un ruolo determinante, rappresenta per il bambino un ambiente sicuro, protetto, che gli permetterà di sviluppare prima «l’Io sono», le basi per la strutturazione dell’identità e dell’individualità, poi di raggiungere «l’Io sono solo», la consapevolezza del bambino della continuità della presenza della madre, del suo prendersi cura, la sicurezza di un ambiente buono e sicuro.
È fondamentale che la madre aiuti il bambino nelle fasi di scoperta della propria autonomia esistenziale supportandolo nella gestione delle proprie ansie e angosce, rendendolo nel tempo capace di rinunciare alla presenza della figura materna. È altresì importante che il bambino sia libero di esprimere le proprie pulsioni e le proprie necessità fisiche e affettive, affinché impari a riconoscerle e regolarle in autonomia.
La consapevolezza del bambino di un «ambiente interno» che lo protegge anche quando è solo, di una madre presente e supportiva, lo renderà capace di essere solo di fatto.
Diversamente, una madre che anticipa i bisogni del bambino non gli consentirà di sviluppare un Sé solido e consapevole. Allo stesso modo una madre che non risponde ai suoi bisogni, genererà in lui la paura dell’abbandono. Entrambi i casi non gli permetteranno di sviluppare la capacità di stare solo bensì alimenterannola sua paura di stare solo.
La madre, quindi, non dovrà mostrarsi né eccessivamente invadente né evitante poiché entrambe le situazioni causeranno condizioni emotive disfunzionali.Sarà necessario stabilire con il bambino una giusta relazione di prossimità che lo faccia sentire al contempo sicuro e libero, e garantire la sicurezza del ritorno dopo un allontanamento o una separazione. Questa sensazione positiva permetterà al bambino di sentirsi al sicuro anche da solo.
Possiamo affermare, pertanto, che la capacità di essere soli è indice di maturità emotiva.
La capacità di essere soli è vivere la solitudine in modo attivo, pienamente consapevoli della nostra individualità e unicità.
Stare con sé stessi è sinonimo di libertà. Libertà di vivere appieno le proprie emozioni che si amplificano, libertà di scavare nella nostra interiorità.
Stare bene con sé stessi permette di cercare relazioni e rapporti autentici; si desidera la compagnia altrui, ma non si è dipendenti.
La capacità di stare soli coincide con la capacità di amare senza possesso, di condividere, di essere empatici. Chi sa essere solo non ha bisogno dell’altro, bensì gode della sua presenza.
La difficoltà di stare soli e di ritrovare sé stessi, invece, minaccia qualsiasi legame, qualunque relazione. Non aver imparato a stare soli grazie alle figure primarie di riferimento e non aver coltivato un corretto equilibrio tra vicinanza e lontananza, potrebbe compromettere l’interpretazione della solitudine vivendola come rischio, come minaccia.
Una percezione interiore e relazionale disfunzionata potrebbe contribuire allo sviluppo di patologie quali il disturbo evitante di personalità, il disturbo della personalità dipendente o altri disturbi legati allo spettro ansioso.
La mancata acquisizione della competenza di stare solo rende l’individuo dipendente, non in grado di relazionarsi al Sé, ma solo all’altro annullandosi completamente. Se non si ha consapevolezza della propria individualità a prescindere dall’altro, a prescindere dal partner, si instaureranno relazioni non sane, disfunzionali.
La capacità di contatto e dialogo profondo con sé stessi è indispensabile per risolvere conflitti interiori, per la costruzione dell’identità, la stabilità del Sé e del Sé relazionale.
La capacità di stare soli si acquisisce dalla relazione stessa, dalla relazione di fiducia che si instaura con l’altro. La capacità di stare soli, dunque, si acquisisce in presenza di qualcun altro proprio come la solitudine implica la presenza di un’altra persona.
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Riferimenti bibliografici
D.W. WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Editore Armando, 1974
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta LazazzeraTirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI

Tanatofobia
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA TANATOFOBIA (LA PAURA DELLA MORTE , OVVERO LA PAURA DI VIVERE)
Cos’è la tanatofobia
La tanatofobia ovvero l’angoscia, la paura di morire, può essere un disturbo fortemente limitante per l’esistenza degli individui che lo sperimentano.
La paura della morte è un’emozione che riguarda ogni essere umano ed è fondamentalmente associata all’istinto di sopravvivenza primordiale.
Tuttavia nella vita quotidiana, alcuni meccanismi di difesa, quali la rimozione, ci consentono di collocare la morte lontano da noi permettendo che tale emozione non pervada i nostri pensieri e non condizioni in maniera significativa le decisioni, le azioni, i pensieri di ogni giorno.
Ciò fintanto che un’esperienza di malattia o la morte di una persona a noi vicina non riapre alla nostra coscienza la consapevolezza della morte, spesso ridisegnando nuove scale di priorità, nuovi significati per la nostra esistenza, insieme a difficoltosi passaggi.
Nella tanatofobia, la paura della morte genera un’angoscia opprimente che impedisce di vivere: qualsiasi azione vitale diventa potenziale portatrice di morte.
Dal punto di vista neurofisiologico la tanatofobia è paragonabile ad un processo difensivo di spegnimento, in cui rabbia, paura, senso di impotenza predominano e in cui il soggetto, incapace di andare avanti, rimane paralizzato in uno stato di immobilità e di paura, come di fronte ad un predatore.
Dal punto di vista psicanalitico, la tanatofobia è riconducibile alla pulsione di morte, così come intesa da Freud, in quanto questa genera l’azzeramento degli stimoli e la ricerca di una pace ideale, irraggiungibile, in cui si realizza la rimozione di tutte quelle situazioni in cui il soggetto può trovarsi desiderante, desideroso di ciò che potrebbe essere negato.
L’angoscia di morte in tal senso non è che l’altra faccia dell’angoscia di vivere e rivela la relazione alla propria esistenza, un’esistenza inappagante e fonte di frustrazione, in cui ci si sente incapaci di avere strategie, in cui l’esistenza è sostanzialmente subita in maniera passiva e si è perso di vista la propria importanza e la propria “competenza” nel vivere. Dominante è il senso di colpa per la mancata realizzazione di sé e l’angoscia per il senso di incompatibilità tra un sé che si è perso ed una vita che ha disatteso le sue aspettative.
Particolarmente nocivi possono essere alcuni contesti socio-culturali che propongono modelli rigidi, rappresentativi di condizioni ideali che poco corrispondono alla realtà soggettiva e alle reali, profonde, uniche aspirazioni dell’individuo, alimentando in alcuni, un profondo senso di inadeguatezza.
Come si cura la tanatofobia
Per il trattamento della tanatofobia è fondamentale costruire in un primo tempo una buona relazione terapeutica mirata a sviluppare nel soggetto la capacità di ascoltarsi profondamente e di relazionarsi alla propria esistenza come ad un’esperienza personale, che richiede continua capacità di adattamento e di elaborazione di strategie di fronte alle frustrazioni. Essa è mirata inoltre ad evidenziare e a valorizzare le competenze dell’individuo, a stimolarne la capacità di mettere in parole il proprio disagio e le proprie paure.
Altro aspetto fondamentale per il trattamento della tanatofobia è la realizzazione di un percorso di uscita dallo stato di immobilizzazione, intimamente legato alla paura.
Questo può essere operato attraverso dei percorsi terapeutici ad-hoc che prevedono la realizzazione di piccole azioni quotidiane gratificanti, in grado di stimolare nel paziente la capacità di individuare, attraverso lo sviluppo dell’attenzione, molteplici fonti di gratificazione nelle attività di ogni giorno. Ciò consente al soggetto di recuperare gradualmente il proprio senso di competenza ed adeguatezza.
Tipicamente, tra questi percorsi vi sono i protocolli mindfulness(1), che propongono la realizzazione di attività semplici, ma significative, effettuate in piena consapevolezza. Questi percorsi sfruttano inoltre la dinamica di gruppo, per rendere più agevole il mantenimento degli obiettivi e favorire l’uscita dalla solitudine in cui è sovente nutrito e alimentato il senso di paura e l’immobilità.
Nel caso della tanatofobia, come anche sottolineato dalla teoria polivagale (2), è importante promuovere nel paziente l’attuazione di meccanismi difensivi più evoluti, legati al coinvolgimento in relazioni sane di tipo supportivo in grado di generare sicurezza, rispetto a meccanismi difensivi di tipo primitivo all’origine dell’immobilizzazione e della paura.
In tal senso anche l’ipnosi può essere un valido strumento d’aiuto: l’utilizzo dell’attenzione condivisa, il tono ed il ritmo della voce, l’utilizzo di immagini metaforiche che emulano la qualità di un’esperienza di attaccamento di tipo sano, sono infatti in grado di generare sicurezza nel paziente, favorendo l’accesso alla consapevolezza delle proprie paure e ad un maggiore controllo dei propri stati ansiosi a queste connessi (3).
Sintesi a cura di
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia
presso lo Studio BURDI
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(1) Tang, Y. Y. (2017). The neuroscience of mindfulness meditation: How the body and mind work together to change our behaviour. Springer.
(2) Porges, S.W. (2017). The pocket guide to the polyvagal
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Il Dolore Non È Per Sempre
IL DOLORE NON È PER SEMPRE
Quante volte nella nostra vita abbiamo pensato : questa notte, questa sofferenza non passerà mai, e poi quando siamo felici, ci sembra normale, scontato, non ci diciamo che bello mi vivo adesso, il qui ed ora, troviamo sempre un qualcosa per rovinarci la festa, il nostro entusiasmo.
Per tutti noi, ogni giorno deve essere un compleanno, dobbiamo festeggiarci ogni istante, fare fuori d’artificio, brindare, ubriacarsi di vita per le azioni compiute, i passi fatti in avanti e anche per il dolore passato o presente, tanto poi passa, passa sempre tutto, può restare il dolore fisico, ma quello morale supera tutto.
Ma una persona si fortifica se attraversa a pieno il dolore, NON scappando da esso, ma percorrendolo e ripercorrendolo ne esce, dovrebbe tuffarcisi dentro per attraversarlo, per arrivare di braccia al bagnasciuga, dopo una sfinita nuotata.
Evidentemente siamo stati per molti anni nella nostra vita numeri due, i numeri nulli, siamo stati delle falsità, ci siamo fatti rendere passivi, e il dolore non passa da mai da solo da un giorno all altro, bisogna accarezzarsi e prendere a pugni, più tempo sei stato in secondo piano, piu hai sofferto e più tempo ci vuole per essere in primo, il numero uno.
Ma, ci vuole tempo, pazienza e presenza a se stessi per affrontare il dolore e solamente una volta superato, lo potrai credere necessario.
Solo elaborando il dolore possiamo recuperare gli anni perduti e capire che di treni persi nella nostra vita non sono poi così tanti, rispetto a quelli ancora da prendere, perché una vita nel dolore è poco conto rispetto agli attimi di vita riscoperti, perché l unico treno della nostra vita è in quest’ora istante, ADESSO , è nel il qui ed ora, miglioralo con la tua presenza.
Angelo CHIONNO
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Il Senso di Colpa Disfunzionale
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE I SENSI DI COLPA DISFUNZIONALI
Il senso di colpa disfunzionale nelle relazioni e il diritto di essere felici.
Il senso di colpa è uno stato emotivo associato alla convinzione di essere all’origine di una determinata situazione negativa per sé o per gli altri.
Tale stato emotivo presuppone l’elaborazione di un giudizio di valore. Si può allora trattare di un giudizio sulla negatività di un’azione rispetto ad un valore interiorizzato o di un giudizio sulla negatività di un’azione a partire dalla percezione della sofferenza e del disagio che questa ha generato o potrebbe generare per sé o per gli altri.
Il senso di colpa implica quindi l’interazione complessa di una serie di giudizi di valore formulati sulla base della propria esperienza di vita e della propria educazione, ma anche di una serie di qualità personali, come ad esempio l’empatia, che implicala capacità di percepire e comprendere la sofferenza degli altri.
Il senso di colpa, inibendo potenziali azioni/comportamenti considerati nocivi al benessere altrui, ha dunque una funzione sociale importante in quanto incentiva un mutuo senso di responsabilità e contribuisce a regolare le relazioni in modo da rendere possibile ed utile alla sopravvivenza della comunità, la convivenza tra gli individui.
Il ruolo inibitorio del senso di colpa rispetto a pensieri ed azioni potenzialmente nocivi diventa tuttavia disfunzionale laddove il criterio di giudizio applicato è fallace e laddove un senso di responsabilizzazione eccessivo compromette la realizzazione personale.
L’individuo si trova così a reprimere pensieri ed azioni che riguardano la propria stessa sopravvivenza e la propria vitalità.
L’attitudine ad un senso di colpa disfunzionale si sviluppatipicamente in presenza di un determinato contesto sociale/ familiare che utilizza o ha utilizzato il senso di colpa come strumento di manipolazione e di controllo sull’ individuo per l’ottenimento di un comportamento voluto o per legittimare azioni/comportamenti propri illeciti di cui non si vuole o non si è in grado di assumere la responsabilità.
Non è difficile rendersi conto di quanto spesso il senso di colpa entri in gioco all’interno delle relazioni, dove in piccole o in grandi proporzioni uno o più individui si trovano a limitare la propria realizzazione, ma anche le proprie emozioni di gioia a fronte delle difficoltà o della depressione di una persona vicina.
Da notare che il senso di colpa si può manifestare non solo come emozione, sentimento di sofferenza, ma anche, nei fatti, come esperienza di auto-sabotaggio punitivo: un figlio che sabota sistematicamente le proprie relazioni sentimentali a fronte delle ansie o del senso abbandonico di un genitore dipendente, unadonna che sabota le proprie riuscite professionali a fronte del senso di inadeguatezza che potrebbe sperimentare il partner.
Da notare che il senso di colpa sottintende una sorta di locus of control interno di tipo negativo per cui il luogo, la causa della situazione negativa che accade e che potrà accadere è individuato all’interno di sé in una sorta di incapacità ad intravedere altri luoghi di responsabilità.
Chi si colpevolizza finisce così per punire sé stesso non concedendosi la libertà e gli spazi intrinsecamente necessari all’esistenza e alla realizzazione di sé: il diritto all’azione libera e creativa è negato, cosi come il diritto di essere felici.
È importante sottolineare che tale dinamica tende tanto più a radicarsi quanto più essa è coadiuvata da terzi che consapevolmente o meno, ricavano un vantaggio dall’estrema responsabilizzazione di colui che si colpevolizza.
Come si guarisce dal senso di colpa
È possibile liberarsi dei sensi di colpa disfunzionali e sistematici grazie ad un percorso psicoterapeutico adeguato.
La psicoterapia può fornire in un primo tempo gli strumenti necessari a non arenarsi sulle sensazioni provate, che tendono a mantenere l’individuo in uno stato punitivo, incoraggiando il paziente ad andare avanti e a muoversi dallo stato di immobilità psichica indotto dal senso di colpa stesso.
In un secondo tempo la psicoterapia può aiutare ad evidenziare il senso di colpa disfunzionale, identificando chiaramente le fallacie del ragionamento nelle attribuzioni di responsabilità e la sproporzione tra la gravità dell’atto/pensiero e il senso di colpa sperimentato.
Di fondamentale importanza nel quadro del percorso psicoterapeutico è circostanziare il senso di colpa, mettendo chiaramente in evidenza in quale contesto relazionale familiare questo si è sviluppato o si sviluppa attualmente.
Ciò consente di ripristinare via via un principio di realtà più funzionale alla realizzazione personale e di liberare l’individuo delle catene che gli impediscono di vivere la propria vita.
Infine la psicoterapia si presenta come strumento per la riconquista e il consolidamento dell’auto-stima e del rispetto per sé nelle scelte relative alla propria esistenza e nelle relazioni, luogo in cui maturare la consapevolezza del fatto che la propria realizzazione può essere un punto di forza fondamentale e di benessere sia per sé che per i propri cari.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Laura CECCHETTO
Tirocinante di Psicologia
presso Studio BURDI
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Sano Egoismo
Il sano egoismo
dal greco, io esisto
Sarà capitato a tutti qualche volta di sentire le parole “sano egoismo” e forse di rimanere perplessi dinanzi a questa strana combinazione, ma è giusto etichettare l’egoismo, una caratteristica con una connotazione negativa, “sano”?
Secondo me sì però con le dovute accortezze, vi spiego il perché sto affermando questo.
Ho realizzato ciò da una seduta di terapia di gruppo dove alcune persone hanno raccontato delle loro esperienze e tutte avevano in comune un singolo fattore: la troppa disponibilità nei confronti degli altri.
L’egoismo è, purtroppo o per fortuna, necessario per proteggerci dai nostri “nemici” e/o da situazioni che fanno trascurare la nostra persona e ci limita. La troppa disponibilità crea poi degli obblighi che ci imprigionano, rendendoci succubi di essi o peggio ancora, di malintenzionati.
È però anche vero che l’essere troppo egoisti allontana le persone da noi, quindi che tocca fare?
Bisogna essere in grado di capire quando e con chi essere egoisti perché le persone si comportano in determinati modi sempre con delle motivazioni che potrebbero essere giustificate o meno.
È di fondamentale importanza quindi cercare di capire l’altra persona cosa ha intenzione di fare, sempre tenendo le dovute distanze quindi cercando di essere disponibili ma non troppo.
Basti pensare ad una relazione tossica dove voi siete la vittima, in questo caso è giusto essere egoisti e pensare a voi stessi pena il divenire succubi del vostro “caro e amato” partner che potrebbe risultare essere un potenziale carnefice se esso è una persona molto violenta e manipolatrice.
Le terapie di gruppo mi hanno insegnato che è imporante essere empatici e disponibili ma con le dovute precauzioni e non smetterò di rimarcarlo.
Avere la giusta dose di sano egoismo significa amare se stessi, preservando la propria persona. La nostra autostima cresce, permettendoci di compiere scelte con una sicurezza che prima non avevamo o non sapevamo di avere!
Essere “egoisti” ci permette di stare bene con noi stessi e voglio sottolineare una cosa che sembra stupida ma non lo è affatto:
Avere il sano egoismo non esclude l’essere altruisti nei confronti degli altri. Basta essere giusti con noi stessi e con gli altri, niente di più semplice.
Alcune persone leggeranno ciò che ho scritto e diranno che ho sbagliato, che bisogna essere gentili con gli altri, eccetera.
Da lì capirò che quelle persone sono i cosidetti martiri, individui che mettono SEMPRE gli altri dinanzi a loro, rimanendo danneggiati nel processo per poi lamentarsi con il povero cristiano di turno.
Purtroppo alcuni devono imparare a capire qual’è il confine tra sano e malsano egoismo. Ecco cosa si intende per “sano egoismo”: una potentissima arma che come tutte deve essere usata in modo responsabile e con fermezza se necessario.
Ricordate: non c’è niente di male ad amare se stessi! Io ne so qualcosa e sono orgoglioso dei risultati che sto raggiungendo
raffaele
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La Scalata
La scalata della vita e Walter Bonatti
A volte ci dimentichiamo che la vita prima di essere un’avventura con qualcun altro è un avventura con noi stessi, alla scoperta dei nostri limiti e verso il loro continuo superamento.
In questa avventura la precarietà della vita e molto spesso le relazioni con gli altri ci mettono alla prova e rappresentano dei veri e propri challenge.
Molto spesso siamo tentati di pensare che tali challenge non dovrebbero esserci e che il fatto che vi siano, sia la dimostrazione che abbiamo sbagliato qualcosa o che qualcun altro abbia sbagliato qualcosa.
Entriamo cosi’ in un loop di colpevolizzazione nostra o degli altri, generatore di sofferenza, dal quale non riusciamo ad uscire.
Spesso inoltre ci inganniamo pensando che per gli altri non vi siano challenge da superare.
Walter Bonatti, alpinista, fine stratega della montagna, autore di indimenticabili imprese negli anni ‘50, raccontava come di fronte ad una parete che improvvisamente si presentava liscia e senza appigli, fosse costretto ad ingegnarsi per inventare punti di aggancio, che a prima vista non sembravano tali, a ricercare nuove strade, spesso lasciandosi dondolare nel vuoto come un pendolo per ampliare la prospettiva.
Walter Bonatti nelle sue scalate era animato dalla ferma convinzione che il nuovo appiglio, il nuovo passaggio, seppur momentaneamente nascosto alla vista, fosse lì, alla sua portata, da qualche parte e gli avrebbe aperto la strada verso la vetta.
La relazione di Bonatti con la montagna è una metafora della relazione dell’uomo con la vita, in cui sforzo, solitudine, solida preparazione psico-fisica, consapevolezza degli ostacoli che si presenteranno e capacità di tollerare la sofferenza sono coltivati grazie ad una profonda fiducia nel fatto di essere destinato alle “altitudini”, in cui fantasia e creatività si dispiegano e fanno sentire l’uomo pienamente vivo.
Fondamentali erano per Bonatti gli attrezzi che egli portava con sé e che sapeva adattare alle esigenze del momento.
Anche ognuno di noi nasce e cresce con una cassetta degli attrezzi, quando ci sentiamo persi è spesso perché abbiamo dimenticato di possederne una, abbiamo perso la fiducia nella nostra capacità di utilizzarla e nel fatto che lì dentro vi può essere quanto ci serve, ma soprattutto abbiamo smesso di credere che quelle “altitudini” sono sempre alla nostra portata, in modi diversi, indipendentemente dalla nostra età e dalla nostra momentanea situazione di vita.
La psicoterapia ci può aiutare a ricordare che abbiamo una cassetta degli attrezzi e a scavare nella nostra cassetta alla ricerca dello strumento giusto, che è solo nostro.
Si tratta di un percorso che se da un lato implica la consapevolezza della nostra solitudine di fronte agli ostacoli,dall’altro ci fa prendere coscienza della nostra forza e delle nostre risorse e ci aiuta a rimanere allenati per nuove sfide e a meglio riconoscere e a scegliere i nostri più validi compagni di cordata.
Anche noi come Bonatti, alpinisti della vita, dobbiamo ogni tantoalzare lo sguardo per ricordarci che la nostra vetta ci attende e, quando serve, farci dondolare come un pendolo per ampliare le prospettive, spostarci anche solo per un istante da ciò che non ci fa andare avanti, perché la prima e la più importante azione della vita è cambiare lo sguardo, avere fiducia nel fatto che sempre nuovi percorsi interiori od esteriori sono alla nostra portata per raggiungere le nostre cime.
Dobbiamo credere che la vita, come la montagna per Bonatti, ci fornisce gli ostacoli, ma anche quegli strumenti, quegli appigli,quei passaggi, tanto più perigliosi, quanto liberatori.
Dott.ssa Laura Cecchetto
Tirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI
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Il raccordo degli accordi
Il raccordo degli accordi
Puoi chiamarlo accordo ma in realtà è puro “raccordo”.
Ti ritrovi la al centro di diverse correnti, strade, vicoli.
Le abitazioni sono pensieri, sensazioni, punti di vista, prese per mano o spinte di pugno, occhi che cercano o sguardi che allontanano.
Alcune le gradisci e altre meno, alcune le subisci e altre meno ma se non ci fossero non esisterebbe “raccordo” e non esisterebbero strade e nessuna vista, pensiero, occhi o sguardi.
Gli spazi, i tempi, le passioni, le preferenze, i sapori e i dissapori, diventano suoni.
E nel percorso non esiste stridore perchè tutto è colore,
perchè tutto è leggero, perchè ogni cosa ha il suo odore, e con la stessa semplicità attraverso il quale respiri, scegli di percorrerlo oppure no, scegli di deviarlo oppure no.
Un giorno canti mentre gli alberi svolazzano, quello dopo sorridi mentre le persiane dei palazzi si incazzano.
Tutto è suono e tu sei musica, fuori di te le note e dentro di te le corde, e poi tutto è musica e tu sei suono, fuori di te le corde e dentro di te le note… non sai e non vuoi sapere quale sia il punto d’incontro, non t’importa definire ciò che vi unisce.
Il tuo contrario è solo un palindromo e il tuo dissapore solo una scusa per invertire marcia e ripercorrervi ancora.
Non è importante conoscerne i perchè e i per come, la domanda è ignorata, la spiegazione sopravvalutata, la teoria schernita, perchè la vibrazione vince sulla partita.
“Io vibro quando sto bene.
Io vibro quando sto male.
Io vibro quando STO.
Se stai bene, se stai male, se anche tu STAI.
Ti va di vibrare un po’ con me?”
carmen de gironimo
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L’ AMORE DI SE
Chi non si è mai guardato allo specchio? Accade categoricamente a tutti, nessuno escluso. Solitamente lo si fa per osservare il volto, la pelle, i pori, le rughe, per correggere le sopracciglia, per ispezionare il naso nelle sue geometrie tridimensionali, per le sue dismorfobiche imperfezioni; per l’ osservazione delle labbra, della sua conformazione, da estendere , da esaltare nel loro potere seduttivo attraverso un rossetto sobrio od acceso, capace di stimolare percezioni emotive.
La massima dedizione privilegiata allo specchio è per i capelli, per quelle chiome la regalità della bellezza; essi possono essere trasformati allo specchio, in ricci, mossi, lisci o ondulati, ognuno possiede una attraction fatal e nessuno può rinunciare alla propria acconciatura all’ ossessione per lo specchio. La cura dei capelli è rappresentativa del livello del cambiamento di atteggiamenti del soggetto drastico. Realizziamo subito una metamorfosi di vita in chi cambia il taglio o il colore dei capelli.
Ma cosa succede quando poi il nostro sguardo si incrocia con i nostri occhi, per un istante fugace, sfugge, ci gira attorno, lo solleva, lo abbassa, si perde nel vuoto, ma poi è costretto quasi a fermarsi, a terminare la corsa rotatoria degli occhi, dal nulla al centro profondo dell’ iride del buio della propria pupilla.
Ma perché ci si sfugge anche se per un istante e avvertire un tale imbarazzo a guardarsi più da vicino, a guardarsi negli occhi, dentro l’ anima ? forse per la paura entrare in profondità con se, di vedere la verità, perché gli occhi non mentono mai.
Incontrare il proprio sguardo assomiglia ad incontrare lo sguardo del proprio amato, inizialmente imbarazzante, estraneo, non guardabile per la sua bellezza, carico di stupor per la sua forza attraente. Noi amiamo dell’ altro, ciò che nel suo sguardo riconosciamo di noi stessi. Quando siamo allo specchio, incrociamo quell estraneo, atteso ma lontano da noi, da sfuggirlo. Chi non guarda serenamente gli altri, fa finta di guardarsi negli occhi. La diffidenza e la presa di distanza dagli altri, è una presa di distanza e di estraneità verso di se. Se si è falsi con gli altri, si raccoglie da loro falsità e da se.
Vuoi verificare quanta falsità produci non stracciando la maschera e quanta estraneità avverti verso gli altri e di conseguenza verso di te ? Essere schietti gratifica, ne ritorna una immagine di se reale e più soddisfacente. Chi vive sulla difensiva o è diffidente, gli ritorna la stessa immagine allo specchio anche se fa finta di nulla.
Fa la prova del nove, verifica se sei estraneo o compiaciuto di te. Guardati allo specchio, fissa il fondo dei tuoi iridi, li nel centro della pupilla e di a te stesso, “ Ti Amo “ . Se scappi, sei imbarazzato, sei un estraneo, diresti, mi sento matto, strano, in un profondo disagio, ma come mai una tale distanza da chi dovrebbe esserti più vicino, tale da deviare lo sguardo ?
Ma se resisti e non desisti, insisti, oltre quella strana fatica, iniziando a bisbigliare “ Ti … “ , avvertiresti in te l’ apertura di un uscio luminoso, da sussurrare sorridendo : “ quanto sei scemo “ ; e se persisti, senti che dentro di te inizia a cambiare qualcosa di molto bello, inizia esattamente da lì a cambiare le tue sensazioni in positivo, ti cambi la vita, ti rendi sereno, più rilassato, amato da te stesso dicendoti semplicemente “ Ti Amo “ .
Non c’è persona più cara, più amabile, bella, profonda, affidabile come te, se tutto viene meno, tu ci sei, mi accompagni ovunque, dappertutto, mi stai accanto da una vita, con la massima fedeltà, non mi tradisci mai, sei il mio punto di vista, di riferimento, la mia ancora nella tempesta, il mio migliore amico, sei mio padre e mia madre, mio fratello, tu ci sei sempre accanto a me, dentro di me, in mezzo alla gente, nel caos, nel dolore, non mi lasci mai, sei colui che mi parla ininterrottamente da sempre, sei il mio goliardico, il mio buffone, che mi fa divertire e mi fa sorridere, non mi abbandoni mai, sei il mio ormeggio, la mia vela spiegata, il mio salvatore, il faro, il mio mentore e il mio sostegno, il saggio che mi bisbiglia sempre all’ orecchio e mi sussurra e mi indica la via dappertutto.
Io e te ci facciamo certe chiacchierate in tutte le ore, compagno del mio unico viaggio, io e te siamo ricchi, ma ci piacere essere poveri, ci accontentiamo di poco, ci bastiamo della sola nostra presenza, non stiamo mai zitti, non ci annoiamo mai, tu sai tutto di me, delle mie sofferenze, delle poche gioie, dei miei segreti, sei il mio intimo confidente che non dirà mai niente a nessuno, sei colui che mi capisce al volo e comunque, stai sempre dalla mia parte, l’ amico del cuore, il mio consolatore, ma sei anche tanto critico e severo, ma poi mi asciuga le lacrime, mi tiene il braccio sulla spalla, mi da una pacca e dice vai, ce la fai, sei forte, tu solo sai delle mie fantasie erotiche, delle mie follie, dei miei pensieri assurdi e brillanti, idee che altri disprezzano o che stanno lì subito a criticarle, mai nessuno che le accolga come sai fare tu, ti adoro, ti amo, mi piaci tanto, sei il mio complice, davvero un bel tipo, il diverso da tutti, l’ opera d’ arte, i miei girasoli, un idiota per diversi, abile per tutto ciò che solo tu sai fare, Ti amo, più di qualsiasi altra cosa al mondo, più di qualsiasi altra persona, farei all’ amore con te, ti accarezzerei delicatamente dappertutto, io sono mio, non ho bisogno di nulla e di nessuno e quando sto bene con te, sto bene con tutti, ognuno vuole sempre qualcosa, tu non desideri nulla da me, se non solo il mio bene, non mi ricatti mai, con te ci uscirei tutte le sere, tutte le mattine, dormirei abbracciato a te, ti regalerei il mondo, ogni giorno dei fiori, per ricordarti che la vita è una festa, che la vita è bella, ti vizierei come un bimbo e se tu non ci fossi, non esisterebbe il mondo, nulla avrebbe senso senza di te.
Tutti gli altri sono importanti, ma senza di te, non esiste alcuno. “ Ama il prossimo tuo, come te stesso “ . È questo te stesso il vero problema se viene lasciato da solo, nel sentirsi sbagliato, inadeguato.
Non è mai così tanto interessante e soddisfacente tutto il tempo che dedichiamo agli altri, quanto può esserlo edificante per se. Tutto il tempo che diamo non è mai importante per gli altri, quanto può esserlo solo per noi. Si deve sempre vivere di conferme, omologati per sentirsi giusti ed autorizzati ad esistere. Piantala, Autorizzati.
Devi solo provare a recitare come un mantra questo inno all’ amore di se, per apprezzare cosa può succedere dopo. Ora ti stai incastrando, ti stai creando degli alibi o stai giudicando, non è narcisista chi impara ad amare se stesso, chi impara ad amare la vita, partendo dalla vita che sei. Se ognuno si amasse, il mondo sarebbe davvero migliore. L’ odio, l’ invidia, la menzogna sociale è tutto ciò che ognuno coltiva dentro di se, lo contagia e lo spalma fuori di se. Chi si ama contagia la vita e le relazioni di amore.
giorgio burdi
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MENTORE DI TE STESSO
Mentore di te stesso
Come nasce il” Mentore di te stesso”?Immagina una vita passata a guardarti avanti e non avere nessuno che ti guidi o che ti consiglii disinteressatamente cosa è meglio fare, nessuno che ti trasmetta passioni,nessuno che inizia le frasi con “ricordati sempre”,”sappi che”, nessuno che ti trasmetta l’idea di origine, l’idea di appartenere a qualcosa iniziato molto prima di te ,qualcosa di rassicurante che ti faccia sentire accettato e sicuro di te perchè bambino,perchè adulto.
Immagina Quindi di essere sempre alla ricerca di una guida, di qualcuno che pensi ne sappia più di te,qualcuno da cui attingere,da emulare da ricalcare in tutto, quel qualcuno con gli schemi e gli attegiamenti che a te sembrano inarrivabili, il meglio,l’altro, qualcuno su cui porsi le domande:
cosa farebbe lui al mio posto? Come si comporterebbe in questa situazione? Come ne uscirebbe? Cosa farebbe al mio posto? Cosa dovrei fare per essere come lui?
Una vita passata in questo modo, guardando altri, cercando altri, con la sensazione costante di essere in piedi su un appoggio instabile, di essere grandi con piedi piccoli, di osservare tutti dal basso come se l’altro per qualche ragione a te sconosicuta ha sempre fatto di più è sempre meglio e cosi per sempre.
Poi arriva un momento, pensi che sia sfortuna che sia tu il problema, perchè non trovi più nessunco che possa essere una guida per te, nessuno che ti appaia migliore, nessuno che ti sembra perfetto anzi inizi ad intravedere debolezze e mancanzela dove prima vedevi solo perfezione e forza.
Inizia un momento di stasi, attesa, smarrimento, vivi ma non vivi, tutto scorre ma non percepisci, non stai ne male e ne bene, ti chiedi cosa stia succedendo, sei trincerato dietro un muro per evitare stimoli,pensieri sembra quasi di avere le orecchie sott acqua e percepire tutto ovattato, tutto scorre ma non ne sei padrone.
Quando tutto sembra meno chiaro, quando ti senti più perso che mai è il momento di cambiare sguardo. Non più alla ricerca di qualcuno, ma guardati dietro guardando quello che tu hai fatto,guardando dove ti trovi ma dando più importanza al dove sei partito, guardando cosa sei diventato,
guardando le battaglie che hai perso,quelle che hai vinto e quelle che hai il coraggio di combattere, accettandoti completamente scoprendo qual’è la strada che hai scelto e sceglierai di percorrere, eccolo è quello il momento che capisci che non troverai più nessuno da seguire perchè sei tu quello che sà cosa è giusto fare, sei tu quello che ha il coraggio di prendere decisioni, sei tu la persona giusta che sa cosa fare, sei tu quello che sa cavarsela, sei tu tu la tua guida, sei tu il tuo mastro, sei tu il tuo mentore.
Allora riparti, riapri gli occhi, Basta chiedersi cosa farebbe lui, ma cosa faccio io, basta cercare idoli,basta cercare mentori, non c’è nessuno davanti, non c’è nessuno sui tuoi binari, sei tu che guidi, sei tu la locomotiva, non ad alta velocità, ma costante ed innarestabile sicura di ogni curva in grado anche di sapersi fermare.
giorgio caputo
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SE
“Se riuscirai a mantenere la calma quando tutti intorno a te la perdono, e te ne fanno una colpa. Se riuscirai a avere fiducia in te quando tutti ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio. Se riuscirai ad aspettare senza stancarti di aspettare. Se riuscirai a sognare, senza fare del sogno il tuo padrone;
Se riuscirai a pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo, Se riuscirai a confrontarti con Trionfo e Rovina e trattare allo stesso modo questi due impostori, Se riuscirai a parlare alla folla e a conservare la tua virtù,
O passeggiare con i Re, senza perdere il senso comune, Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti, Se per te ogni persona conterà, ma nessuno troppo.
Se riuscirai a riempire l’inesorabile minuto
Con un istante del valore di sessanta secondi,
Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa,
E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio”
Joseph Rudyard Kipling 1895
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LE ETICHETTE
LE ETICHETTE
Dal dizionario:
Designazione astratta o di comodo per classificare semplicisticamente una persona o una cosa.
Ognuno di noi, fin quando non decide di smettere di identificarsi con esse, ha addosso delle etichette. Etichette che ci indossano indossano gli altri, ma anche etichette che ci mettiamo noi stessi.
Ma davvero l’essere umano, nella sua complessità, può limitarsi a definirsi “semplicisticamente” con qualche termine comune in tutti gli anni della sua esistenza?
Ci sono etichette che facciamo davvero fatica a toglierci di dosso e che condizionano ogni passo che potremmo fare e che non facciamo perché diciamo a noi stessi “io sono così non riesco, non posso, non devo”.
Etichette che ci portano ad avere dei comportamenti più o meno a lungo che non rappresentano il nostro essere.
Ci tengono in gabbia, in schemi fissi che consideriamo immutabili.
Spesso, l’idea di cambiare, di uscire da questi schemi , da queste “etichette” ci fa più paura della situazione che stiamo vivendo, che per quanto possa essere dolorosa, ormai è “casa” e pensiamo che sicuramente fa meno male di cosa ci potrebbe essere al di fuori.
Ogni singola esperienza, reazione, relazione, emozione, seppur in piccola parte ci cambia, e quindi davvero le persone o noi stessi possiamo definirci in modo permanente? Possiamo davvero avere addosso delle etichette come dei prodotti?
Siamo complessi, mutiamo, evolviamo ogni singolo giorno.
Spesso, siamo così concentrati a guardare cosa pensano gli altri, che non ci rendiamo conto del nostro cambiamento, non riusciamo ad ascoltarci e restiamo fermi con l’idea di noi del passato invece di guardare a noi del presente.
Lasciamo agli altri la libertà di decidere noi chi siamo e crediamo più agli altri che a noi stessi.
E’ anche vero che ci sono persone meravigliose che possono guardarci nel profondo e possono vedere ciò che noi non riusciamo a vedere di noi stessi nei periodi più bui, ma ci saranno anche persone che proveranno a spegnerci ancora di più.
Ma noi possiamo decidere chi ascoltare , cosa tenere addosso e cosa togliere, cosa ci rappresenta davvero e cosa no.
Il fatto stesso di cambiare atteggiamento e modi di fare con le diverse persone che frequentiamo e che incontriamo nella nostra vita, ci fa comprendere forse, che non siamo una cosa sola e che ognuno ci vede un po’ come vuole e che l’importante è riconoscersi, riconoscere se stessi in tutti i vari passi della vita.
Non avere paura di uscire da questi schemi, di guardarti dentro e di vedere e riconoscere il tuo cambiamento, di farti vedere cambiato, di essere incoerente con le tue idee o comportamenti di qualche anno,mese,giorno, ora, attimo prima.
E se hai paura, vai incontro alla paura.
Guardati, immergiti, ti riconosci? Sei semplicemente “il te stesso” di ora.
Domani chissà cosa sarai.
Io il mio viaggio interiore per riconoscere e far conciliare ogni singola parte di me nella mia vita, nel qui e ora, l’ho iniziato un po’ di tempo fa, e ho la fortuna di essere accompagnata da due grandi fari,scelti non credo per caso, e da un gruppo meraviglioso in continua evoluzione.
A questi due fari una grande “etichetta” però vorrei metterla, solo per farvi comprendere una piccolissima e impercettibile parte di ciò che sono e che rappresentano nel mio percorso, ma non credo esista ancora una parola così grande. Vedere ogni settimana la mia e l’evoluzione di tutto il gruppo, è una delle emozioni più grandi. Mi auguro di “lavorare” un giorno con la loro stessa grande passione che trasmettono a pieno e che si può vedere nei loro occhi.
Anna Bombacigno
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