
Dipendenza Affettiva
Dipendenza Affettiva
Donna autonoma, brillante e indipendente: sembrano qualità sufficienti per poter essere serene, senza il bisogno che qualcun altro possa far crollare ciò che pensavamo fosse indistruttibile nel corso degli anni.Questo però non avviene quando la serenità, al contrario, diventa il nostro peggior nemico.
Forse perché non ci è familiare? Può qualcosa essere tanto ricercato dall’essere umano quanto temuto, semplicemente perché non siamo in grado di gestirlo?Ma ricominciamo. Cos’è la dipendenza affettiva?È una forma di attaccamento patologico a una figura che può essere un partner, un amico o un familiare e ci porta a poggiare interamente il peso della nostra anima sul corpo di un’altra persona. Ma se quest’ultima dovesse cadere… noi dove finiremmo?Partendo dalle radici, tale problematica può avere origine da diversi fattori di rischio: una mancata educazione emotiva,
un’assenza familiare significativa e una bassa autostima. Quest’ultima ci porta a valutare e svalutarci esclusivamente in base a ciò che ci dimostra il soggetto da cui dipendiamo.È importante, in questi casi, capire che per amare gli altri è necessario prima amare se stessi, saper formare la propria personalità e avere ben chiara la distinzione tra ciò che odiamo e ciò che amiamo.
Solo così possiamo decidere, responsabilmente, cosa deve essere aggiunto alla nostra vita e cosa, al contrario, va tolto.Amarsi non è semplicemente dirlo: amarsi è una scelta consapevole, che ti permette di cambiare realmente la tua vita se sei disposto a rischiare.
È un percorso lungo, altalenante, con un unico obiettivo: creare un effetto boomerang su noi stessi, e far sì che qualsiasi cosa ci ferisca non diventi un circolo dipendente dove cerchiamo disperatamente di riavere ciò che ci hanno tolto, ma piuttosto un riflesso di ciò che è l’altra persona.Quando, in passato, manca una figura genitoriale o entrambe si cerca, in futuro, di ricoprirla.
Di ricercare disperatamente quell’amore che non ci è stato dato. Questo perché abbiamo bisogno di dimostrare a noi stessi che possiamo riceverlo.L’amore genitoriale, però, non può essere sostituito. Le mancanze affettive rimangono tali e, invece di diminuire nel corso delle relazioni, possono aumentare.
Per questo è necessario prendere consapevolezza del problema, voler migliorare, fermarsi un attimo e riconoscere la differenza tra adrenalina e malattia, quella che un rapporto disfunzionale può creare.Imparare a stare da soli è un’arte: la metafora di dipingere la tela con i propri colori. Il potere di poter decidere se qualcun altro può aggiungerci qualcosa, ma che anche se così non fosse rimarrebbe ugualmente un bel dipinto.
Non si può coprire un vuoto, ma lo si può riempire. Tu puoi riempirlo. Conoscere il tuo amore e i tuoi standard relazionali, decidere quanto vuoi dare di te a un’altra persona non perché devi, ma perché vuoi.Lasciare una percentuale per te, in modo tale che tu non ti possa scaricare mai del tutto. O almeno, non per via di qualcun altro.
La consapevolezza di ciò che meriti, e il non accontentarti di niente che non sia quello che TU hai scelto per te stessa.Perché non sei l’amore che non ti hanno dato.
valeria de girolamo
tirocinante di psicologia presso lo studio burdi università statalei di foggia

Il Rigetto
Il rigetto
Chi non ha sperimentato esperienze predatorie? Siano esse nelle relazioni amicali, parentali, amorose o affettive in genere. Siano esse più’ o meno traumatiche.
Non ci siamo saputi difendere. I nostri confini sono stati violati. Quei confini che ci definiscono e ci distinguono dagli altri. Il perimetro della nostra essenza, della nostra dignità, del nostro valore. Ma che sono anche un filtro, una membrana, una lente attraverso la quale guardiamo l’esterno. Una membrana che può’ essere più’ o meno porosa, una lente che può’ essere più o meno aberrante, ma che comunque interviene come una cornice di senso sulla nostra capacità di accogliere, elaborare e catalogare quello che ci giunge dall’esterno, il corpo estraneo.
Spesso noi stessi non conosciamo quei confini. E d’improvviso diventiamo testimoni di una reazione cicatriziale interna alla nostra anima, un sieroma infinito, nei confronti di quel corpo estraneo, di quell’atto “violento”, di quel ”altro da noi” che continuiamo ad accogliere. E’ la nostra anima, la nostra essenza, che cerca di isolare questa struttura disconosciuta, di rigettarla.. Ma a volte la membrana è troppo sottile, è carta velina bagnata. E il rigetto non avviene: Il confine manca.
Curare l’anima passa attraverso la costruzione dei nostri confini, per definire chi siamo e in cosa siamo diversi. Per dire “no” a ciò che non siamo. E “si” a cio’ che siamo. Ricostruire l’anima passa attraverso lo stabilire che li’, oltre quella soglia, non si può andare. Nessuno può’ farlo. L’individuazione del nostro punto di rottura, poi, ci protegge dai corpi estranei. Il punto di rottura corrisponde a quello che Giorgio Burdi chiamerebbe il “nostro Numero Uno”, che grida e dice “basta è finita!”. Il più delle volte questo grido non supera il volume delle nostre fragilità. È solo un eco… e ci sembra che tutto ciò che facciamo siano solo azioni automatiche. Diveniamo spettatori delle nostre reazioni e il mondo esterno non sembra reale. Qui la nostra essenza si disintegra. Quello che credevamo di essere viene sgretolato dai nostri comportamenti dissonanti, che sono spinti dal solo bisogno di affetto, di essere visti…E arriviamo ad odiarci, perché nonostante tutto siamo li. Quel “nonostante tutto” pesa tantissimo, ma non è sufficiente a farci fuggire.
E allora, rimbocchiamoci le maniche. Risoluti. Cosa dovrebbe succedere per dire “Basta!!!”? Uniamo le nostre fragilità a sostegno della definizione del nostro confine. Perché se non abbiamo chiare anche le nostre fragilità, se non le accogliamo, faremo sempre vincere il dolore. Non ci sarà mai una rivolta. Non sarà mai il numero Uno a guidare le nostre scelte. Decidiamolo ora qual’e’ il punto di rottura. E non importa se oggi il nostro cuore non sa sostenerlo. Ma da oggi in poi lavoreremo per sostenerlo, e forse non saremo neanche costretti ad arrivarci al nostro punto di rottura: Se lo abbiamo chiaro in mente, abbiamo anche gli allarmi di quando ci stiamo per arrivare.
…e finalmente, immaginando come ci sentiremo oltre quel punto, sentiremo che quella sensazione li’ non è una sensazione che non sappiamo sostenere. Finalmente vibriamo solidi. Le nostre decisioni sono perloppiù irrevocabili. La nostra visione va via in un istante!
valeria carofiglio
Continua
Il mammone bamboccione
IL MAMMONE, BAMBOCCIONE. L’ apprensione che non fa crescere.
L’errore nella vita di ciascuno di noi è essenziale e necessario. Le difficoltà, Il fallimento, aldilà della loro connotazione negativa, spronano a far di più e meglio, facendoci conoscere quali sono i nostri limiti e i nostri veri desideri.
Tanti ricorderanno lo strepitoso successo di “Ricomincio da tre”, film del 1981 diretto da Massimo Troisi. Un film ancora ineguagliato come permanenza nelle sale italiane. Tra i tanti personaggi che s’incontrano, nel susseguirsi della trama, uno riesce, su tutti, a destare nello spettatore, uno strano mix di sentimenti, sospesi a metà tra tenerezza e compassione.
E’ il quasi cinquantenne Robertino (Renato Scarpa) che nonostante l’età, conserva modi, pronunce e ritrosie tipiche di un preadolescente.
Il suo unico svago sembra essere la visita di Frankie, un predicatore protestante italo-americano. Per il resto: lui, mammina e i suoi schemi mentali alquanto retrivi.
L’atteggiamento critico della madre, sui costumi della moderna società, sui giovani di oggi che confondono sesso e amore, sul demonio, nascosto in ogni dove, hanno reso Robertino, un oggetto da museo.
Incerto, muto, dipendente ed estraneo a qualsiasi pulsione esterna. Non a caso chiederà a Gaetano (Troisi) dopo quante volte, il fare l’amore, diventa un atto immorale. Da qui, l’invito insistente di Gaetano a uscire, a far qualcosa, semmai anche “rubando e toccando e’ ffemmine”, tutto purché impari a vivere.
Robertino ha una mezza crisi istrica, preferisce rimanere con mammina e nessuno lo istigherà a cambiare. Sebbene il resto dei personaggi, nel film subisca un’evoluzione (o un’involuzione) di Robertino si perdono le tracce. Ma ne intuiamo la profetizzata fine: “mammina te mann a o manicomij, attè”.
Non ci interessa molto il fatto se Robertino è mammone o bamboccione; se è dalla sua gioventù che continua ad essere uno “sdraiato” (come i ragazzi del libro di Michele Serra) o non ha trovato lavoro perché troppo “choosy”; se un padre ce l’ha o è scappato dalla famiglia per disperazione.
Quello che lo distingue è l’essersi arreso: ai dettati (dettami) della madre, alla sua emancipazione, alla vita stessa. In poche parole: ha scelto di non sbagliare. Sbagliando poi, tutto.
Uscite da casa vostra! Pioverà, ci sarà vento, vi sporcherete le scarpe, vi innervosirete per la macchina in doppia fila…ma uscite! Uscire, nella vita, vuol dire crescere, verbo che la sapienza dei latini accostava a “creare”.
Quella creatività/creazione oggi, più che mai, fondamentale per scoprirci come uomini e donne che, nella fretta del mondo, rischiano di perdersi e svanire. O nascondersi, come Robertino.
Da piccolo, mi interrogavo sul comandamento: “Onora il padre e la madre”. Che voleva dire? Ero bravo a scuola, facevano tutto quello che dicevano, in fondo non li stavo onorando? Quale sarebbe alla fine lo scopo? Dopo, cosa ne rimarrebbe, la dipendenza o l’ autonomia?
Disobbedire è crescere ed imparare l’autonomia, allontanandoci dai processi educativi proposti ed imposti, alla ricerca della propria educazione. Un uomo sarebbe in grado di educarsi da solo.
L’insegnamento dei genitori serve, se ci aiuta ad “errare” e maturare, a diventare grandi, a diventare uomini e donne, padroni delle strade del mondo avviene, lasciando la mano.
luca
Continua