“Abbiate il cuore vicino e i battiti lontani”
(Tonino Bello)
Mio padre ha sempre vantato una sicura discendenza dagli svevi, la dimostrava non solo nei capelli rossi della famiglia, ma, anche da un generico carattere istintivo e inquieto. Così, quando alle medie, incrociai sui libri, Federico II, re fulvo e testardo, iniziai a crederci anch’io e a definirmi in un lignaggio, mai verificato, ma, che alla fine mi tornava utile, visto che giustificava alcuni tuoi battiti affrettati e incerti.
So che mi credi, quando ti dico che avrei voluto una mia storia, forse un po’ più lineare e che mi sento inutile, nei mille tentativi di ritracciamento di rotta. Scrivo a te, per questo; per un’incomprensione lontanissima e inguaribile, e che ci ha visti compagni, nel tentativo di voler dare nome vero, a chi insieme, abbiamo tentato d’amare.
Dovresti conoscere quella strana dinamica che porta volti carissimi e preziosi a divenire, d’un tratto, anonimi e distanti. Sai spiegarmi come succede? Qual è l’attimo preciso in cui ogni attesa scivola in un luogo che non conosciamo e disincanta ogni emozione buona? Lo devi sapere, per forza, perché gli stessi battiti che ci dichiarano amanti agli altri, sono gli stessi che, negli addii, ci smarriscono sui sentieri di chi vorremmo rincorrere e fermare.
Dare e avere, avere e dare. Ritorni che dovrebbero essere semplici e invece, tutto assomiglia, sempre più, ad un bilancio impari, quasi fallimentare, dove quello che si è impegnato o si è dato, è sempre eccedente rispetto all’incassato. Un calcolo, così avvilente, che alla fine, viene ribassata anche la moneta di scambio e l’incontro diventa chiamata, la chiamata, messaggio, il messaggio, un like, un like, per buona pace di tutti, un generico astratto pensiero. Fine delle trasmissioni.
Dare e avere. Ricordi? Al liceo, rincorremmo due autobus, perché l’amata di allora non era scesa alla fermata fissata. Perdemmo la serata a rifarci i percorsi, per scoprire, alla fine, che non era mai salita su nessuno dei tram. Il programma era cambiato, ma non ci aveva avvisato. Eppure il dare e avere si scontorna, incredibilmente, su queste traiettorie: c’è uno che dà e trova nel suo cuore risorse e forze continue e c’è un altro destinato a ricevere. Ammesso che non le scansi…
Lo scarto tra innamoramento e amore si gioca qua: quando l’altro declina sé stesso, verso la reciprocità. Se non ci fosse questa, ogni rapporto potrebbe diventare un’emorragia mortale. Scrivo a te, per un’incomprensione che non siamo riusciti mai a sanare. Semmai, invidiosi di altri che riuscirono nell’impresa e noi già stancati da tentativi e sogni insonni di intere mezze estati: “Perfino quando la scelta è concorde, la guerra, la morte, la malattia assediano l’amore lo rendono momentaneo come un suono, furtivo come un’ombra…” dice Shakespeare.
So che la stanchezza ha una lingua sveglia e ci si convince facilmente di essere stanchi per rincorrere, per spiegare, per scusare, stanchi di trovare voce e giustificazioni ai silenzi degli altri. Stanchi non della loro indifferenza, ma, peggio, della loro superficialità. Non sempre sono amori non ricambiati, anche normali amicizie o rapporti troppo carichi di aspettative. Aspettative…sembra uno sbaglio anche l’uso di questo sostantivo, perché seppur il linguaggio degli amanti, per dirla alla Barthes, risieda nell’attesa, essa non si dischiude a noi, come vorremmo. Forse perché immaginiamo che l’altro ci debba un’ala, per volare.
Qualche volta ti scuoto, quasi fossi un antico orologio a corda e temo che qualcosa si sia rotto; il tanto dato ha allentato i giri delle molle e la lancetta dei minuti è rassegnata a non coprire più, con esattezza, i segni del tempo. Nella stessa misura, i miei pensieri non coincidono, esattamente, con chi inseguo. So che è cosa normale, ma, perché, poi, i giorni dell’avvicinamento e dell’addio hanno lo stesso sapore dolceagro e solo i pianti della notte ne segnano la differenza?
Così, stanco di questi soliloqui e assenze, ho imparato a cercare te.
Lontano da ogni volto, da ogni nome, da ogni desiderio, parlo a te, quasi io fossi un reduce che scopre quanto è importante vivere, nel malandato tragitto verso casa. Ora, vorrei convincerti e dirti che non abbiamo sbagliato nulla; che ogni battito dato non è andato perso, se è servito a capire non tanto la gente, quanto noi stessi. Oltre quei momenti la nostalgia sembrava andare nella direzione opposta alla volontà. Traditi da chiunque. Lasciati a recitare parole che nessuno poi, ha sentito, se non io e te; discorsi lunghissimi che riprendevano fiato in una canzone. In un film. In una foto, a tratti, sempre più sfuocata ed estranea. Seduti a maledire quella mela che resterà a metà! A grattarne via i semi, magari tornasse utile alla fame dei rimorsi. Almeno a quella.
“Tέτλαθι δή, κραδίη” “Sopporta, cuore!”. Ulisse si faceva forza con questo detto, consapevole che, alla fine della sua Odissea solo la propria personale pazienza si sarebbe opposta al destino voluto dagli dei. Diversi ellenisti hanno fatto tradotto il verbo principale non con sopporta, ma, con: compi fino in fondo, realizzati pienamente.
Scrivo a te, mentre tra le mani sembra ci sia poco. Vorrei riportarti a istanti in cui tutto sapeva di una felicità, senza scadenze. La vita si esprime in una lingua che traduciamo piano. Vorrei amare te (amare me), prima di cercare altre mani; prima di abbracciare più forte quelli a cui dimostro poco affetto. Sopporta, o meglio, realizzati! In fondo, siamo sulla strada buona se non siam restati a richiedere, ciò che non c’è stato dato indietro. Se sei diventato grande, mentre ti scartavano, perché giudicato insufficiente. Se davanti alle cattiverie, ti son rimasti propositi di nobiltà.
Se non ti sei arreso. Ed oggi è facile, perché perfino gli sguardi e le intese si son fatte fragilissime. Le risposte a questo le avrà il cervello. Noi possiamo opporre resistenza, cercando ancora Bellezza. Non altrove, ma, prima, dentro di noi.
Poi, semmai, ci avvicinerà un altro cuore e insieme sapremo che potremo chiamarlo amore.
Luca Anaclerio
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